domenica 30 dicembre 2007

idee per un romanzo

L.T. mi racconta di una sua idea per un romanzo. Seguo ammirato la breve trattazione, lodo la gaia perentorietà del titolo e intanto penso che le ‘idee per un romanzo’ potrebbero costituire a loro volta, e a pieno titolo, un nobile genere. Certo, viene subito in mente Centuria di Manganelli, ma quello stesso autore ha (e ha avuto) fama di eccentricità stilistica. No, quando dico che le ‘idee per un romanzo’ dovrebbero meritare un ruolo più compiuto intendo davvero qualcosa di domestico e generale: ogni autore, insieme ai lavori finiti, dovrebbe di tanto in tanto rendere pubblici i grumi narrativi, i germogli di storie, gli stimoli estetici che, trascritti sul retro di una busta e sul biglietto del cinema, sono stati accantonati in una cartellina dal titolo ‘idee per un romanzo’ (quale scrittore non la possiede?), dove giacciono. Il motivo: nella ‘idea per un romanzo’ è spesso contenuta la massima quantità di energia creativa, talvolta così concentrata da non poter essere diluita in un romanzo.

sabato 29 dicembre 2007

semplice e facile

C’è differenza fra semplicità e facilità, anche in tema di scrittura.
Bisognerebbe amare i testi semplici e odiare quelli facili. La semplicità, infatti, è il traguardo cui giungono i migliori scrittori, ovvero coloro che hanno davvero sbozzato la pietra espressiva lavorando di martello e di cesello fino ad ottenere la forma pura e leggera. E attenzione: la semplicità, così faticosamente ottenuta, arriva poi a tutti, viene apprezzata da chiunque.
La facilità (scrivere in ‘maniera facile’, leggere ‘cose facili’), al contrario, sembra invece l’esito infelice della pigrizia mentale, sia di chi fa e sia di chi riceve.

il tappeto

”Ma che scrittura sciolta, agile. Si avverte davvero in lui una naturalezza nell’esporre...” dice A.
Non lasciamoci ingannare: la fluidità di un testo, percepita da chi legge, è inversamente proporzionale al lavoro svolto sulla costruzione sintattica ed è al postutto un faticato punto di arrivo, il risultato di imponenti moti strategici e tattici dei componenti in gioco. Un testo risulta infatti fluido alla lettura, scorrevole, capace non solo di trattenere il lettore sulla pagina ma addirittura per così dire di spingerlo avanti lungo la sequenza dei periodi (come se ti venisse tolto il tappeto da sotto i piedi...) soltanto alla fine di un meticoloso e ostinato sforzo su ogni singolo mattoncino lessicale.

mercoledì 26 dicembre 2007

scrivere con l'udito

Arnaldo va al mare è un breve romanzo (inedito) di Roberto Gualducci, opalescente come certe foschie dietro le quali tremolano il sole e le cose, tecnicamente leggero come un castello di carte, ma soprattutto gradevole all’udito. Sì, gradevole all’udito, ovvero percepito dal lettore attraverso le forme sonore di cui è costituito. Si badi, non si tratta, in Arnaldo va al mare, di esperimenti linguistici basati su forme di contagio sonoro. Tutt’altro: non vi è traccia di funambolismo estetico o di vezzi virtuosistici, nel testo, che procede lungo i casi ora ridicoli ora ingrati cui va incontro il protagonista, un sempliciotto, o forse un animo semplice e gentile dotato di una eccessiva fiducia nel mondo. Ma ciò che conta, qui – come sempre – è il taglio stilistico, caratterizzato da elementi di dialogo che giungono senza mediazioni dal centro della scena dritto dritto alle orecchie di chi legge, cosicché si ha come la sensazione, a tratti, di passeggiare per via ascoltando i discorsi del mondo.

autore e lettore

L’autore ovviamente conosce a fondo le intenzioni che lo hanno animato nello scrivere un testo. Spesso è anche certo che queste intenzioni siano pienamente visibili agli occhi di chi legge. A mio parere, invece, l’autore non è purtroppo in grado di stabilire se le sue intenzioni siano davvero visibili a chi legge. Sia perché gli è impossibile leggere il suo testo in totale ‘verginità’, ovvero liberato delle intenzioni che lo hanno motivato, e sia (soprattutto) perché il lettore, ogni lettore, leggendo, sposta il baricentro estetico dell’opera, cosicché se anche non vedesse nel testo le intenzioni dell’autore e ne vedesse altre, bene, dal suo punto di vista avrebbe ragione lui. Insomma, l’autore non può assolutamente stabilire, dal suo punto si vista, che effetto faccia il suo testo sotto altri occhi. Una caratteristica umana o psicologica affidata a un personaggio non è automaticamente percepita da chi legge con lo stesso angolo che l’autore gli ha fornito. Il lettore attinge dalla sua vita, dalla sua immaginazione, per rendere tridimensionale il testo che l’autore gli offre e avrà perciò suoi specifici sfondi di riferimento. In parole povere: il testo offre solo se stesso, e non le intenzioni, sicché ogni versione è legittima.

il lettore

L. fa parte di una giuria e deve perciò valutare, dal punto di vista del lettore, alcuni testi letterari.
Osserva – le consiglio - dapprima tutto ciò che è proprietà: ortografia, sintassi, tempi verbali e simili. Poi valuta gli elementi stilistici: uso della lingua, tono (il tono è fondamentale), struttura dell'opera, capacità di costruzione dell'intreccio, abilità nel farmi andare avanti a leggere, ricordando sempre che l’esercizio della critica letteraria è cosa diversa dalla valutazione del lettore. Ora controlla se nell’opera c'è un dato creativo, qualcosa di nuovo nello stile, nella forma, nell’orchestrazione, e infine valuta se ciò che si racconta è pregnante, significativo, degno di nota.
Direi che può essere considerato degno di nota il testo in cui sono sufficienti tutti e quattro questi livelli. Ma se un testo è geniale, ma davvero geniale, anche solo su un parametro, allora bisogna mandarlo avanti in ogni caso.

martedì 18 dicembre 2007

contrappeso

La scrittura allude a un desiderio di scomparsa? Forse sì.

Per quale ragione, infatti, si dovrebbe scrivere, se non per porre fra sé e il mondo un filtro? Scrivere, è vero, è utile a chi scrive perché fornisce un formidabile aiuto alla comprensione di sé e del mondo, ma questa è una ricaduta di cui ci si avvede dopo aver già deciso di scrivere… E si è deciso di scrivere, probabilmente, per arretrare dal turbinoso palcoscenico del giorno, per tenersi fuori dalla mischia. Dunque, si scrive per fuggire dal mondo. Ma poi, d’improvviso, si desidera essere riammessi d’ufficio, in quel mondo, attraverso la pubblicazione. Che il desiderio di vedersi pubblicati non sia altro, dunque, che l’esatto contrappeso di quella volontà di scomparsa da cui è nato lo scrittore?

si scrive sempre

Chi scrive, scrive sempre. Quando scrive, ovviamente, ma anche quando non scrive, quando, per scelta o per accidia, assume l’atteggiamento passivo e distante di chi passa di lì per caso. Chi ha contratto l’attitudine di scrivere, infatti, conserva il metodo di tradurre ogni scena vista, ogni dettaglio percepito, profumi e sensazioni compresi, in una struttura sintattica compiuta. Magari non se ne rende nemmeno conto, ma lo fa (e chi non lo fa, probabilmente, non è ancora ‘uno che scrive’). Così, accade che anche nei periodi di minor dedizione all’atto di scrivere, lo scrittore continui a scrivere, in quella forma intima, sorta di seconda pelle, che è il percepir-scrivendo. Si tratta di una scrittura che svapora mentre si fa, ma non per questo destinata a perire: ammassata in un archivio mentale, sorgerà da sé, tempo dopo, come un’urgenza, come una necessità di espulsione…

domenica 25 novembre 2007

dissoluzione

L’atto di scrivere (ovvero l’abitudine di scavare il buio alla ricerca del verbo o del termine adatto, faticando su ogni struttura sintattica) dovrebbe aiutare a dissolvere il proprio io, rendendo gli scrittori molto più umili e più semplici degli altri esseri umani, i quali, non avendo mai provato la disciplina dell’arte, hanno sviluppato una ipertrofia dell’io che li costringe a presentare una immagine di sé tronfia e impettita.
E invece – inspiegabilmente – vi sono molti scrittori che vivono nella piena convinzione di essere i più grandi autori viventi. Azzardo una possibile spiegazione: forse questi autori non hanno mai davvero ‘scavato il buio’, non hanno mai davvero disperso il loro io nel quotidiano atto di scrittura, non sono mai andati al di là dell'esercizio svolto con modalità note.
E dunque i loro testi non potranno essere che mediocri.

giri di campo

Ogni autore pensa con affetto ai testi che ha scritto in passato (lui li chiama libri). Ma dovrebbe abituarsi a considerare la maggior parte dei suoi scritti passati come semplice allenamento, come palestra preparatoria agli scritti successivi. Così, quando pubblicherà, potrà cominciare a scrivere i nuovi testi a partire da quel primo pubblicato e soprattutto a partire da quello stile, da quella formula, che senza dubbio rappresenta il punto più alto della sua capacità tecnica.
I testi precedenti, ovviamente, non dovrà buttarli, poiché magari sono buoni per altre epoche o per altre occasioni, ma dovrà ricordare che quelli sono stati i giri di campo grazie a cui ha sviluppato i muscoli che gli hanno permesso di realizzare l’impresa.

pensare al lettore

Ogni autore dovrebbe pensare al lettore, mentre scrive.
Ma a quale lettore deve pensare?
Il lettore generico, si sa, non esiste, poiché la lettura, come la scrittura, è esperienza ad alto contenuto individuale. Potrebbe scrivere pensando a un singolo lettore, attingendo dalla cerchia delle sue conoscenze, ma in questo modo, adattando il suo testo a quella persona, escluderebbe tutte le altre tipologie umane. Meglio allora se tenta di rivolgersi a una fascia di lettori, che so, i giovani, il ceto medio, i raffinati esteti, ma con il rischio di perdere di vista la fisiologica caratteristica del testo, ovvero quella di nascere da un singolo individuo per rivolgersi a un singolo individuo (che può anche diventare massa, ma massa di individualità). E allora?
C’è una terza via possibile: l’autore dovrebbe scrivere per il lettore che lui stesso è stato. Ma si badi, non il lettore maturo e smaliziato che è diventato a forza di libri, ma il lettore avido e appassionato che è stato quando ancora non aveva creato gerarchie del bello.

tre requisiti

L’autore scrive un libro, ma in realtà produce un manoscritto.
L’editore pubblica quel libro, ma in realtà scommette al buio su un parallelepipedo di carta.
Solo il lettore potrà dire se il manoscritto e il parallelepipedo sono diventati un libro.
Infatti un libro è tale se possiede almeno tre requisti: il primo, che l’autore governi (o inventi, in rari casi) gli strumenti lessicali, sintattici, narrativi, strutturali della composizione; che l’autore abbia qualcosa da dire, intendendo con questa formula non soltanto aspetti di contentuto ma anche (forse soprattutto?) formali, espressivi, di tono e simili, grazie ai quali l’editore si senta pronto a scommettere; infine, è necessario che il lettore sia catturato, anche inconsapevolmente, dalle soluzioni proposte dall’autore.
In assenza del terzo requisito è difficile dire che l’autore abbia scritto un libro.
E’ bene perciò che l’autore tenga sempre sul suo tavolo una foto del lettore, piuttosto che il proprio ritratto.

domenica 11 novembre 2007

lievito

L., con il suo racconto, ritaglia e descrive una porzione di mondo, quello delle chat line, e ne dà senza dubbio la mappa completa, ma non aggiunge al tutto quell’ingrediente in più che trasforma un testo documentario in un lavoro letterario: e questo ingrediente può essere un punto di vista laterale, un taglio stilistico originale, un intreccio potente, o altro ancora che l’istinto o il genio dell’autore saprà scovare, ma che è indispensabile per far lievitare (se vogliamo restare nella metafora culinaria) lo scritto.

venerdì 26 ottobre 2007

o vivo o morto

Lo scrittore non scrive mai quando è vivo. Scrive quando è morto (morto: sinonimo di assente, asociale, imperturbabile, indifferente, distaccato, atarassico).
Esiste anche lo scrittore vivo, senza dubbio, quello che parla, incontra gente, chiacchiera, guarda la televisione. Succede che qualcuno incontri lo scrittore vivo e cominci a fargli domande su come scrive, sul perché scrive. Lo scrittore vivo tace. Non può rispondere, non conosce le risposte. Sono concetti noti soltanto allo scrittore morto. L’interlocutore insiste, e allora lo scrittore vivo è costretto a dichiarare di non essere la persona adatta a rispondere.

organizzazione

Scrivere, come si sa, è una questione di tecnica (conviene ripeterlo, perché negli ultimi giorni ho ancora sentito la terribile parola ‘ispirazione’). E - voglio aggiungere - scrivere presuppone un buon livello di organizzazione, non soltanto in vista della stesura di un testo, ma proprio all’origine, dentro la testa, o dove diavolo risieda il centro di controllo dell’attività espressiva.
Partiamo a esempio dai ricordi. Non ci si deve accontentare del naturale scenario evocato da un ricordo, ma bisogna avvicinarsi sempre più al quadro che va formandosi nel buio della mente, indagare nelle zone in ombra del ricordo (chi c'era, lì, sullo sfondo? di che colore era la mia camicia?). Soprattutto, all'apparire di un ricordo, non si deve restare immobili e inebetiti davanti all’immagine evocata, ma occorre invece darsi un gran da fare per dare il nome a tutto ciò che via via appare.
Alle corte: solo una continua e costante attività di organizzazione mentale (di qualunque tipo sia, s'intende) porterà il sedicente scrittore al compimento dell'opera.

domenica 21 ottobre 2007

scrivere racconti

La difficile tecnica del racconto, storicamente poco esplorata in Italia, sta incontrando da qualche tempo una stagione di interesse, da parte di chi scrive. Ciò è dovuto probabilmente alla diffusione di quella che definirei letteratura della rete, nella quale la forma-racconto sembra trovare fisiologici sbocchi. Ma la disciplina del racconto resta comunque ardua: un territorio delicato che richiede dosaggi sapienti e minimi di ingredienti, dove un errore anche lieve può risultare determinante.
Il giovane autore che sceglie questa strada dovrà dunque dedicarsi con pazienza alla stesura di racconti adottando stili diversi, passando magari per una fase preliminare in cui i testi composti possono suonare alla maniera di più che propri. Non c’è nulla di male in ciò: tutti i pittori non hanno forse cominciato copiando per esercizio i grandi maestri che li hanno preceduti?
A. è un autore giovane e dotato di talento che ha tessuto una serie di racconti non tutti di pari livello, proprio come se esplorasse, al fine di conoscere davvero il passo che gli è più congeniale, diversi modelli narrativi. I suoi racconti paiono uno studio preparatorio delle proprie potenzialità espressive piuttosto che un lavoro pensato organicamente. Ed è proprio così che deve concepirlo: come uno studio preparatorio. Del resto, il compito più alto, per un autore, è quello di raggiungere un proprio stile. Ma per arrivare a quel traguardo occorre che l’autore si misuri e si eserciti su svariati processi di composizione, esplorando la varietà di forme sintattiche, di registri, di toni e di strutture testuali di cui dispone (ed è buona cosa disporne di alcuni), fino a riconoscere e perfezionare un suo proprio passo, una sua voce personale.

mercoledì 10 ottobre 2007

scintillio

C. apprezza la scrittura in cui trova ‘acume e scintillio’.

Ma che cos’è, di preciso, lo ‘scintillio’? La risposta non è facile, poiché in questi casi si fa riferimento più a sensazioni (come è giusto che sia) che a precisi dati tecnici presenti nel testo. E però chi scrive dovrebbe cercare di darsi proprio risposte come queste, se vuole governare a pieno la sua sintassi. Proviamo a cercare le ragioni dello ‘scintillio in un testo’, allora, partendo da una premessa. In un romanzo, l’attenzione è di solito tenuta desta dal fatto che un personaggio fa qualcosa. In un testo di tipo saggistico, invece, non vi sono personaggi che agiscono, ed è perciò la sequenza logica dei concetti a generare l’interesse. Ma l’attenzione o l’interesse non sono ancora lo scintillio, il quale deriva da un ‘di più’ di interesse, da una di luce più vivida che sfugge dal testo. Chi genera quel ‘di più’? Tentiamo ora la risposta.

In un romanzo, dove c’è chi fa qualcosa (i personaggi), credo che lo scintillio venga prodotto dalla capacità della sintassi di concatenarsi con potente consequenzialità logica, grazie ad avverbi e congiunzioni, così da generare in chi legge la sensazione che la pagina venga tirata su come un tappeto, portando tutto con sé.

Un saggio invece scintilla quando un concetto si mette a fare qualcosa, alla maniera dei personaggi di romanzo, come può essere una metafora che assume vita propria popolando di suoi rimandi i concetti successivi (se parlo della letteratura inedita come parte sommersa dell’iceberg, ad esempio, dirò poi che gli autori inediti osservano il fondo marino e simili).

Alle corte: quando il testo svela la sua potente capacità metamorfica, ecco che produce effetti incantatori e scintillii.

domenica 7 ottobre 2007

talento e strategia

Dunque s’è detto che l’autore non dovrà pensare al libro (inteso come oggetto edito) durante la stesura di un lavoro letterario, ma esclusivamente al testo, mettendo in gioco, al meglio di sé e nel chiuso della stanza, talento e competenza tecnica, disciplina e malizia, forza e leggerezza, e un pizzico di autoironia.
Poi, però, a opera conclusa, è legittimo che l’autore desideri vedere la sua fatica condensata in un libro. Ma attenzione, le doti messe in atto per la stesura del testo sono del tutto inutili al fine di raggiungere questo secondo obiettivo, così come la qualità stessa del lavoro, da sola, non è sufficiente a traghettare il testo alla dimensione di libro.
Alle corte: l’autore deve scegliere una strategia, armarsi di destrezza e sviluppare capacità relazionali se vuole che il suo testo si trasmuti in libro (il verbo ‘trasmutare’ non è scelto a caso, poiché la metamorfosi del testo in libro si compie di pari passo con la mutazione alchemica dell’autore).

venerdì 5 ottobre 2007

testo e libro

Molti giovani autori vivono lunghe stagioni di frustrazione e di delusione in attesa della sospirata pubblicazione. Questi tormenti sono probabilmente destinati a crescere fino a quando non sarà chiarita in profondità la distinzione che esiste fra il testo e il libro.
L’errore sta tutto nel pensare al libro durante l’atto di comporre un testo.
Il libro, infatti, è un oggetto che assolve svariate funzioni, fra cui anche quella di contenere un testo. Inoltre, il libro è un oggetto progettato e realizzato da più persone (autore, editore, grafico, tipografo, distributore, libraio...) per soddisfare esigenze di più categorie umane e sociali.
Il testo, invece, è l’esatto risultato di un processo interno, tecnico e creativo. Il testo nasce dal disegno estetico dell’autore e si nutre esclusivamente delle sostanze fornite da chi scrive.
Alle corte: il testo non ha bisogno del libro, ed è perciò bene che l’autore non pensi al libro, mentre scrive.

domenica 30 settembre 2007

competenza

Va detto anche l’ovvio, a volte: la scrittura è una competenza. Voglio dire con questa frase che se si lavora seriamente, con costanza e con umiltà, si arriva prima o poi a governare la sintassi e a organizzare un testo.
Avere acquisito una competenza significa conoscere i fondamentali di una disciplina: saper nuotare e saper andare in bicicletta sono competenze. Ma queste competenze non sono automaticamente connesse con il primato. Infatti, chi sa andare in bicicletta o chi sa nuotare non è e non sarà necessariamente un olimpionico. Così, la competenza nella scrittura, da sola, non porta d’ufficio alla ribalta letteraria. Ma è certo che senza la competenza non si accede a nessun luogo dello scrivere. Quindi, la cosa più importante è chiedersi quanto siamo disposti a sacrificare per la scrittura, in termini di tempo e di pratica quotidiana. Il fatto è che per acquisire la competenza nello scrivere bisogna in qualche modo ‘votarsi’ alla scrittura, considerare il proprio impegno letterario come un secondo lavoro (se non il primo), indipendentemente dai risultati immediati che si colgono.

domenica 23 settembre 2007

il progetto personale

N. dice che il suo unico sogno è quello di pubblicare.

Gli faccio notare che non ha ancora terminato la sua prima scomposta prova, ma capisco, prima di finire la frase, che il suo desiderio di pubblicare nasconde il vero obiettivo, che è quello di apparire.

Taccio, ma vorrei dire che pubblicare e apparire sono esperienze del tutto differenti, quasi sempre non contigue. Soprattutto, vorrei indicargli la gerarchia dei valori, in questo campo. Al primo posto, infatti, ci deve essere il progetto personale, quale a esempio: “Nei prossimi tre anni voglio cambiare casa, comprare un quadro e scrivere un romanzo.” Perché è solo il progetto personale che dà senso a sé e alle cose. Se poi si riesce davvero a comporre il testo, voilà, il traguardo è raggiunto. La eventuale pubblicazione è solo uno dei possibili sviluppi di quel lavoro, non il naturale esito. E non dipende solo dalla qualità dell’opera. Ma se anche il romanzo fosse poi pubblicato, l’evento avrebbe riflessi esclusivamente nel piccolo mondo dei lettori, e non tutti, ovviamente, leggeranno quel libro.

Alle corte: tutto ciò che cosa ha in comune con l’infantile e grossolano desiderio di notorietà?

martedì 18 settembre 2007

concime

Una antica regola alimentare sostiene che il nostro organismo è predisposto, lungo l’arco delle ventiquattro ore, su tre modalità biologiche: da mezzogiorno alle venti è pronto per ricevere il cibo, dalle venti alle sei del mattino seguente lo assimila, dalle sei alle dodici si eliminano le scorie.

Ho già detto che il cervello e l’intestino (i miei, almeno) sono lo stesso organo. E dunque leggo di pomeriggio (il nutrimento), assimilo durante la sera e nel corso della notte evitando dunque di leggere o scrivere in quelle ore, ma scrivo rigorosamente al mattino, per eliminare le eccedenze e le scorie.

E a chi obietta che i libri non sono sterco basta dire che si tratta di concime.

lunedì 10 settembre 2007

i crostini di Gigio

Stiamo bevendo un bicchiere di vino all’osteria L’Achiugheta di Venezia e intanto, dietro il bancone, Gigio, il cameriere, accomoda su un grande piatto numerosi crostini di pane. Poi, con molta concentrazione, distribuisce su ognuno di essi prima un pizzico di sale e dopo una spruzzatina di pepe. Quindi fa scendere su ogni crostino, dalla bottiglia prelevata sul ripiano, un filo d’olio, dosandolo con millimetrica precisione affinché cada proprio al centro e in quantità fissa. Ora osserva il tutto, attende qualche secondo che l’olio venga assorbito dal pane e poi inizia a sistemare sul suo schieramento, con studiata meticolosità, una dopo l’altra, le morbide strisce di peperone arrostito che sceglie attentamente da una ciotola lì vicino. Alla fine riprende il giro, ma questa volta per poggiare con delicatezza due acciughe marinate sopra ognuno degli ormai opulenti crostini. Ecco, adesso il piatto è pronto per essere posto sul bancone, a disposizione dei clienti, ma prima di abbandonarlo, Gigio gli getta ancora un lungo sguardo circolare scrutando al tempo stesso l’insieme e ogni singola parte, come se compisse una sorta di revisione generale.

Ecco, ho detto tra me, è così che si scrive.

uso e etimo

E’ senza dubbio certo che l’unico vero lasciapassare di una parola è al postutto la lingua d’uso, sia per la forma (vespertillo divenne pipistrello nella lingua d’uso e tale oggi è la forma corretta) e sia sul piano semantico (fesso ha allargato il suo senso da participio di fendere fino al noto bonario insulto, e ora fesso allude solo alla stupidità). E tuttavia, nonostante la forza dell'uso, io non riesco a usare il termine esatto per esprimere il concetto di giusto, corretto, tanto risuona forte in me, in quella parola, il participio di esigere. Così come non riesco a dire o scrivere egregio, a causa della presenza del gregge in quell’aggettivo.

Alle corte: l’etimologia è un formidabile argine contro una sorta di naturalezza dell’uso, a causa della quale si tende a far proprie tutte le parole per puro contagio espressivo.

Ma si badi, percepire di tanto in tanto le parole alla luce della loro origine o della loro storia è attività esente da pose di puristi o da schemi ideologici: è solo questione di orecchio.

martedì 4 settembre 2007

deriva

E’ strano che sia invalsa la moda di chiedere agli scrittori opinioni su fatti di cronaca o su idee generali.
Lo scrittore sperimenta parola dopo parola e riga dopo riga quanto sia potente e necessario il dubbio. Chi scrive sa che basta un piccolo evento per abbattere quella sottile barriera di protezione, fatta di certezze e convinzioni, con cui ha rivestito il caos furibondo che lo abita. Scrivere impedisce che questa barriera si rafforzi, scrivere impedisce l’intasamento e neutralizza il desiderio di imporre con rigidità un ordine assoluto a ciò che assoluto non è. Di fatto, chi scrive ha scoperto, anche solo per ragioni di scelte lessicali, che ogni certezza tende a ispessire la barriera, a intasare.
Alle corte: è assurdo chiedere opinioni a chi ha scelto, suo malgrado, il dubbio e l’incertezza, a chi ha reso le sue convinzioni fluttuanti per lasciarle andare un po’ alla deriva…

martedì 28 agosto 2007

fermentare

Si dice di chi scrive che 'è in fermento'.
Fermentare è alla base della vita: fermentano il pane e il vino, per diventare tali. E l'intestino ha bisogno di fermenti per funzionare.
Ho sempre sostenuto che il cervello e l'intestino sono lo stesso organo (anche nella forma, se ci si pensa) e hanno funzioni analoghe: ricevono, elaborano, assimilano ed espellono, se l'organismo è sano. Il cervello riceve immagini e suoni e parole (ovvero il cibo), elabora e genera pensieri (la digestione), trattiene ricordi e produce una 'filosofia' propria (gli elementi che nutrono), espelle il risultato dei pensieri (non c'è bisogno di analogia).
In pratica, per star bene non bisogna essere stitici, bisogna scrivere, se no i pensieri si accumulano nella testa e occludono. E appena espulso un pensiero bisogna tirare l'acqua e passare ad altro, se no si resta infantili.

ricordare per scrivere

Chi scrive per ricordare deve ricordarsi prima di tutto di ricordare.
E per ricordare occorre di volta in volta appuntare in forma di frammento il ricordo che è stato evocato magari da un balcone fiorito o dalla penombra di un porticato. Questo lavoro di annotazione deve essere svolto con metodo, ed è perciò necessario avere sempre con sé il taccuino su cui trascrivere, nel momento stesso in cui il ricordo emerge, quel dettaglio o quel colore. Poi, con calma, si dovrebbe passare alla stesura più meditata organizzando il materiale raccolto in una struttura narrativa o più semplicemente, senza scomodare Proust, in una cornice descrittiva. Oppure, e credo sia la cosa migliore, è sufficiente lasciare i frammenti trascritti sul calepino così come sono nati (a patto di averli scritti con la massima cura sintattica pur nel fervore del momento), vale a dire lasciando intatto, in quel breve testo, il lampo di verità trasfigurata che è il ricordo.
Ma attenzione, scrivere i ricordi non vuol dire comporre l’autobiografia, che richiede un progetto, ma significa catturare, nel flusso del presente, lo spontaneo apparire di bruscoli di passato.
Alle corte: i ricordi affiorano come relitti e devono perciò galleggiare sulla pagina allo stesso modo, senza connessioni dirette.

lunedì 27 agosto 2007

scrivere per ricordare

P. scrive: “Ho tante cose dentro di me, che premono per venire fuori, ma non so farle uscire.”
Credimi – ho risposto - l'unico modo per far rivivere le cose è quello della scrittura. Purtroppo, però, chi scrive non rivive davvero l'esperienza evocata, ma ne respira soltanto gli ultimi profumi, poiché per restituire davvero ciò che si vuole far riemergere occorre lavorare duro di sintassi, di vocaboli scelti con cura, di ritmo. Così, chi scrive rievoca poco, ma chi legge, se l'autore ha faticato (sacrificando il suo proprio ricordo), rivivrà le esperienze altrui godendone appieno. Dunque, bisogna scrivere, non c'è altro modo per salvare i propri ricordi, ma sapendo che li si rende disponibili per gli altri, più che per sé. La storia della vecchina morta sola e senza figli, senza lasciare ricordi di sé, è molto bella, ma non è vero che nessuno ha raccontato nulla di lei. Grazie alla tue parole, io, oggi, ho saputo della sua esistenza, ed è come se la avessi vista. Dunque, non è poi così vero che si scompare del tutto. Ma bisogna scrivere e scrivere, per ricordare, tenendo comunque a mente Qoelet: "Né di un sapiente, né di un idiota avrà memoria il tempo." E al tempo stesso sapendo però che ogni nostra parola (e gesto, e sguardo) interagisce con il mondo e lo cambia per sempre, cosicché risulta impossibile scomparire...
Insomma, tutto è duplice, e muta, e sfugge e resta. E scrivendo si raddoppia la duplicità ma anche il mutamento, e si moltiplica l’assenza ma anche la presenza.

giovedì 9 agosto 2007

pubblicare

R. ha scritto un bel libro, ma soffre perché non trova un editore.
Caro R. - gli ho risposto - ritengo che tu sia un buon scrittore, ma del tipo che definirei 'scrittore giovane'. Non per l'età e nemmeno per i temi trattati, ma per il bisogno di pubblicazione che ti anima. Tale bisogno, bada, è comune a chiunque scriva, ma è prepotente nel 'giovane scrittore', ed è un bisogno capace di produrre anche molta frustrazione, se disatteso.
In effetti, essere giovani vuol dire vivere ancora nel pieno della stagione delle illusioni.
L'illusione, tuttavia, non è quella di pubblicare, ma quella di credere che la pubblicazione potrebbe dare un senso alla tua vita, alle cose che fai. Non è così. Il senso delle cose che fai è esclusivamente nelle cose che fai. Il resto è burocrazia. Ciò non vuol dire che non devi cercare di pubblicare, ma devi farlo con leggerezza, con distacco, senza pensarci troppo. Spedisci il libro e poi dimentica di averlo spedito (non è facile, lo so) e intanto prosegui, scrivi altro, fai bricolage, progetta nuovi cicli narrativi. Ma senza credere che debba essere il mondo esterno a darti conferme: non te ne darà, nemmeno se e quando i tuoi libri saranno pubblicati e venduti in centinaia di copie.

sabato 28 luglio 2007

internet e antibiotici

Internet è come gli antibiotici. Abbiamo fatto a meno della penicillina per millenni, ma da quando esiste, come è ben noto, la vita media si è allungata. Internet non c’era fino a pochi anni fa, ma ora, grazie a questo mezzo, la vita media si è allargata, ampliata, dilatata, permettendo accessi impossibili, improbabili, impensabili poco tempo fa. Chi scrive dovrebbe tenere conto di questo ‘allargamento’, innervando il suo testo di lateralità e di connessioni.

domenica 22 luglio 2007

per chi si scrive 2

F. mi dice che quel tale autore, pur scrivendo bene, non lo convince del tutto e non sa perché. Gli rispondo che secondo me quell’autore è senza dubbio padrone dei fondamentali, sa usare gli strumenti tecnici, ma è per così dire 'impregnato di presente', e questa scelta lo condiziona, perché gli impedisce di esprimere il 'di più' che invece riescono a esprimere gli autori che osservano meno la religione culturale del loro tempo, quale che essa sia.
Quel ‘di più’ infatti lo esprimono gli autori che scrivono guardando davvero altrove, e per altrove intendo semplicemente un bisogno interno più forte di ogni necessità del momento. A quel ‘di più’, stilisticamente, ci arriva chi non strizza l'occhio al pubblico, ma attinge dal suo proprio sulfureo o scanzonato mondo, producendo opere magari fuori tempo e fuori mercato, ma che regalano al lettore il senso di essere al cospetto di un testo che definirei 'dotato di anima', se sapessi che cosa vuol dire ‘anima’. Se però con 'anima' intendiamo quel sapiente processo tecnico e stilistico (metafore sapienti, accostamenti di aggettivo e sostantivo, capacità di creare attesa...) in grado di indurre nel lettore sia una sorta di febbrile ‘caduta nel testo’ e sia o soprattutto la sensazione di essere il solo beneficiario a goderne, ecco che riusciamo a intravedere una sorta di spartiacque.
Alle corte: i grandi autori parlano sì al pubblico, ma non si tratta del pubblico collettivo, bensì del singolo lettore, che in cambio di questo dorato privilegio onorerà l'autore sentendo quasi fisicamente tutta la forza e l'autenticità del testo.

lunedì 16 luglio 2007

per chi si scrive

La questione è antica: per chi si scrive? Le anime belle dicono di scrivere per sé. Le persone sincere confessano di desiderare su ogni altra cosa la pubblicazione, e così dicendo affermano anch’esse implicitamente – e forse inconsapevolmente - di scrivere per sé. Chi scrive per sé, anima bella o persona sincera che sia, risparmia i soldi dello psicanalista e in ogni caso compie un esercizio buono ed efficace, come il nuoto. Ma è uno scrittore?
Vi sono poi quelli che scrivono per un pubblico predefinito e che producono quindi opere per ragazzi, o per amanti del fantasy, o per seguaci di discipline varie. Costoro svolgono un ruolo utile, conoscono regole e processi, sanno alimentare e anticipare le attese estetiche del loro pubblico. Ma sono scrittori?
C’è poi chi scrive ‘sotto scorta’. Costui scrive sia per sé e sia per un pubblico, ma per così dire in seconda battuta, perché ha scelto in primo luogo di sentirsi osservato, sempre, costantemente, mentre scrive, da un occhio esterno, e si preoccupa di restare degno di quello sguardo. Se l’osservatore esterno è un grande autore, chi scrive sotto la scorta del suo sguardo (non al suo modo, s’intende) potrà in futuro essere definito uno scrittore, ovvero non appena si sentirà in grado di sostituire quell’occhio autorevole con il proprio.

domenica 15 luglio 2007

riti

E' noto che per essere accettati, oggi come ieri, presso determinati gruppi, che per ottenere i gradi di questa o quella disciplina occorre passare attraverso un rito detto di 'iniziazione', grazie al quale non solo la mente, ma anche il corpo del neofita (per via della tensione e dell'ansia che le prove iniziatiche producono) viene per così dire segnato dal rito, affinché la memoria biologica possa riandare da quel momento in poi a un prima del rito e al dopo dell'iniziato.
Per la scrittura, gesto individuale e solitario come altro mai, ha senso ed è possibile essere 'iniziati'? Credo proprio di sì: ha senso, perché rafforza la coscienza - sempre in dubbio nei veri scrittori - di essere appunto uno scrittore; ha senso, inoltre, perché è sempre bene che anche il corpo sappia (in forma ufficiale, giacché è ovvio che il corpo vive ogni nostro atto) e partecipi delle cose della mente; ed è infine possibile, come dirò di seguito, essere iniziati.
La maggior parte degli scrittori, infatti, ha praticato quasi istintivamente il suo proprio rito iniziatico, quando, ad esempio, si è sottoposto per almeno una settimana a levatacce alle cinque del mattino seguite dal quasi immediato impegno al tavolo di scrittura per tre o quattro ore. Solo in questo modo infatti, o altri analoghi ma sempre capaci di piegare il corpo a una prova forte, è possibile conoscere qualcosa di sé e del proprio modo di scrivere.

domenica 1 luglio 2007

centro e periferia

Chiunque abbia mai tentato di stabilizzare un ombrellone su uno scoglio avrà imparato rapidamente questa semplice regola (dopo aver tentato invano, accostando grosse pietre contro lo stelo): per dare stabilità al centro, rappresentato allo stelo, occorre adottare forze che agiscano lontano dal centro stesso, ovvero sulla periferia. E avrà ad esempio praticato quattro fori laterali alla base di una bottiglia di plastica - giova avere sempre con sé un coltellino - nei quali avrà infilato due pezzi di legno lunghi un braccio e disposti a croce piatta. Quattro pietre posate alle estremità dei bracci di questa croce-basamento, ovvero lontano dal centro-stelo, daranno al tutto piena stabilità.
Ma perché raccontare tutto questo? Alle corte: anche nel narrare una storia occorre tenere conto del fatto che il centro si stabilizza agendo sulla periferia, vale a dire che la storia principale reggerà soltanto grazie al sapiente dosaggio di storie periferiche connesse da lontano con quella.
E forse questo principio non vale soltanto per gli ombrelloni e per i romanzi...

domenica 17 giugno 2007

binari

Il pensiero - vale a dire in generale ciò che penso, le mie idee, le sensazioni, i progetti - è come un treno: può contenere cose e persone, ma per muoversi ha bisogno dei binari. E i binari sono le strutture sintattiche su cui faccio procedere il pensiero, sono le frasi compiute, le parole, i periodi, le congiunzioni, gli avverbi con cui formulo e do forma al pensiero, anche il più banale. Soltanto in questo modo il pensiero, perlomeno il mio, può arrivare a destinazione, ovvero a definirsi e a essere compiuto. Ma soprattutto, soltanto affidando il pensiero a una forma strutturata in frasi definite riesco a capire esattamente ciò che sto pensando. In assenza di binari, le cose e le persone contenute nel pensiero si affollano sulle pensiline in disordinata e irritante attesa, in una confusione di volti e di oggetti da cui non è facile separare il proprio dall'altrui. Alle corte: per sapere che cosa si pensa occorre pensare in forma scritta.

mercoledì 13 giugno 2007

appunti

Ognuno di noi, presto o tardi, viene sfiorato dal sospetto che tutto sia inutile e vano.
I più cercano di non pensarci e reagiscono progettando nuove cose, mentre lo stupido diventa malinconico e poi depresso. Lo stupido, infatti, di solito è anche superbo (in quanto stupido) e soffre perciò al pensiero che il suo 'io' non valga niente.
Poi c'è il saggio: sa da tempo che tutto è inutile e vano, sa che il suo 'io' non vale niente, ma non si deprime, e nemmeno si lancia in nuovi progetti, più o meno nobili, più o meno alti, individuali o collettivi. No, il saggio prende appunti e consiglia a tutti, stupidi e no, di usare molto l'ironia, di ridere di sé e del mondo, perché progetti e depressione possono diventare sinonimi.

mercoledì 6 giugno 2007

saggio o romanzo?

Vi sono autori di saggi storici che desiderano dare un taglio meno ordinario al loro lavoro introducendo brani di colore letterario. Ma ciò è sufficiente? Di solito no. L'imponente mole di dati storici documentali viene infatti appena scalfita dagli stratagemmi di 'adattamento narrativo' adottati per dare al saggio storico una più sbarazzina fisionomia di romanzo. Inoltre, il frenetico srotolarsi di dati, date, nomi e vicende, lungo i capitoli, fa precipitare il lettore in una sorta di vertigine nomenclatoria non compensata da autentici 'effetti di romanzo', poiché i quadri narrativi quasi sempre nascono e muoiono in se stessi, restando privi di quella rete di rimandi interni tra personaggi ed eventi che, artatamente tesa - tipica malizia del romanziere - tiene il lettore in costante attesa di un poi, di uno svelamento.

mercoledì 16 maggio 2007

happening

Il 9 giugno 2007 terrò un happening di scrittura a Ivrea. Mi è stato chiesto di che si tratta e non ho saputo rispondere. Trattandosi di un esperimento mai tentato prima, infatti, io stesso non so prevederne l'esito. So per certo, però, che in un pomeriggio tenterò di dimostrare che governare la parola attraverso l'atto di scrivere (senza gerarchie: dal racconto umoristico al necrologio, dal biglietto di auguri al saggio sui lombrichi) è necessario, o meglio indispensabile, se si vuole davvero percepire il mondo, potenziare i sensi, dare vita ai propri sogni o progetti e rafforzare la fiducia in se stessi, tanto per citare così, a braccio, alcuni dei ventisei motivi per cui si deve scrivere.
E lo farò con argomentazioni verbali, con esempi pratici, con esercizi di scrittura da svolgere sul posto o più tardi a casa, lo farò con l'ausilio di test giocosi, con prove tecniche, con eventi scenici, ma sempre con la penna fra le dita. E i partecipanti, in quanto tali, potranno ovviamente partecipare: ascoltando, intervenendo, confutando, scrivendo, cancellando, agendo, attaccando l'avversario (interno ed esterno), in un rutilante e babelico crocevia di parole.

sabato 28 aprile 2007

laterale e acuto

Alle corte, sì, ovvero non facciamola lunga.
Alle corte: ovvero, unire il dono della sintesi a quello della proprietà lessicale.
Per farlo, a volte basta un uso sapiente e sapido degli aggettivi. "Sì, lui parla poco, e sembra assente," dicevamo ieri sera, parlando di S., "ma ogni tanto riemerge dal suo silenzio, e in quel momento diventa davvero... davvero laterale e acuto."
Ecco, scegliere quei due aggettivi, laterale e acuto, per definire i commenti di S. è un modo per onorare sia la sintesi e sia la chiarezza. Chi ascolta è davvero costretto a rivedere nella propria mente il volto di S., a risentire i suoi commenti così rari, ma così capaci di deviare dall'ovvio (laterali, appunto), e al tempo stesso così nitidi, acuti. Alle corte: un aggettivo può salvare spesso una conversazione, talvolta la serata.