martedì 29 gennaio 2008

descrivere

Scrivere è un termine di vasta scala, che contiene al suo interno decine di gradini (trattandosi di scala…) fra cui, a esempio, descrivere. L’operazione di descrivere non è di ordine meccanico, per il quale basterebbe osservare e tradurre poi in parole la porzione di mondo scelta. La mappa uno a uno del mondo (capolavoro dei dilettanti) non è descrizione, ma mera trascrizione, che annoia il lettore non rendendolo partecipe dell’atto visivo.

Per descrivere occorre estrarre dall’oggetto scelto quell’elemento particolare che sicuramente scatena in chi legge l’immediata visione del tutto (a esempio, in una casa anni Cinquanta, il soprammobile sul televisore; nel cortile di una cascina, la scala appoggiata al fienile…). La scelta dell’elemento non può essere casuale. L’autore deve avere una estrema sensibilità al senso generale della percezione, sapere, di ogni scena, che cosa davvero resta negli occhi di chi guarda, quasi accedesse all’inconscio collettivo. Se il particolare è quello giusto, il lettore completerà da sé il quadro, vedrà la scena, e la descrizione sarà perfetta.

scrivere un romanzo

Ricorda: un romanzo ben scritto non è un romanzo.

La formula ‘scrivere un romanzo’ viene percepita e usata dagli autori esordienti come un unicum. Ma così non è. Infatti ‘scrivere un romanzo’ contiene due diverse aree tematiche, racchiuse nei due termini ‘scrivere’ e ‘romanzo’. Le due aree tematiche sono connesse ma non contigue. Scrivere prevede – cosa nota - il governo della sintassi, la padronanza lessicale, il controllo della consequenzialità logica, la capacità di distendere la massa verbale e via tacendo. Scrivere è una disciplina, e come tale può essere padroneggiata con la costanza, con l’esercizio, con il tempo.

Ma saper scrivere non vuol dire saper scrivere un romanzo. Nel romanzo entrano in gioco abilità specifiche, quali a esempio l’architettura narrativa, l’organizzazione (fabula e intreccio…), lo stile e soprattutto il tono. Ma c’è di più. Stendere un romanzo è un’arte: prevede l’uso di una disciplina (lo scrivere), ma richiede al tempo stesso, oltre alle abilità proprie di quell’arte, unicità o libertà stilistica (la contraddizione fra il rispetto della disciplina e la libertà stilistica è solo apparente).

Il cammino di chi scrive dovrebbe essere dunque graduale e passare, prima di accedere al romanzo, attraverso le varie modalità che offre la scrittura, dalla lettera al resoconto, dal saggio alla parodia, fino a quando il pieno possesso della disciplina dello scrivere induce a sperimentare il passaggio al livello superiore, quello che definiremo dell’arte.

martedì 22 gennaio 2008

si legge con il tatto

Chi legge, ovviamente, legge con gli occhi. Nel caso della lettura, però, gli occhi non svolgono una funzione visiva, ma tattile. Può sembrare un paradosso, ma è così. Nello scorrere la frase, il lettore riconosce (volente o nolente) la morbidezza, la levigatezza o al contrario la ruvidità di quella sequenza di parole. Insomma, leggere è una esperienza tattile, e perciò chi scrive, dopo avere preparato la massa lessicale, deve distenderla e impastarla (ovvero spostarne e ancora spostarne gli elementi costitutivi) a lungo, e aggiungere olio, e ancora impastare, massaggiare, distendere...

il massaggio

Ogni singola frase, appena scritta, per quanto 'suoni bene', va concepita e trattata come un grumo rigido, compatto, scabro. E va perciò massaggiata, per renderla morbida. Dunque, si comincia a spostare un elemento, si cerca un verbo più proprio, si introduce un avverbio, si elimina un inciso, si prova a cambiare un aggettivo con un sinonimo, si ritorna all'origine per sentire la differenza, si legge la frase ad alta voce, si verifica la continuità logica con la frase precedente...
Alla fine, se questo lavoro artigianale sarà stato condotto con volontà, si avrà la sensazione di avere davvero 'ammorbidito' la frase, di averla resa più docile al tatto.
E anche il lettore godrà di questa piacevole sensazione.

domenica 20 gennaio 2008

il sorso

Qualcuno ritiene che tutto ciò che è scritto (ma proprio tutto, dal Genesi alle cartoline di buone vacanze) sia letteratura. La letteratura, dunque, che cos’è? Al suo grado più immediato, la letteratura è data da una struttura più o meno articolata di parole che, raccontando o alludendo, concorre a farmi percepire l’esistenza di altre vite oltre la mia. La formula chiave di questo assunto (assai gratuito, ne convengo) è in ogni caso ‘farmi percepire’. Ovvero, c’è letteratura quando vedo irrompere nella mia vita, per il tramite delle parole, persone e cose che nel giro di poche righe mettono in moto i miei occhi e le mie orecchie, i miei sensi tutti, apparendo di fronte a me in tutta la loro concreta pienezza. Ma affinché io possa ‘percepire’ fisicamente il mondo tramite le parole, occorre tecnica raffinata. E allora, come è possibile scorgere letteratura in qualunque testo? Forse, la ragione è questa: chi è molto esercitato alla letteratura può vedere sorgere di fronte a sé il mondo anche per mezzo di stimoli minimi, come a esempio i nomi dell’elenco telefonico. Ma questa, ahimé, è una condizione da drogato: all’alcolizzato basta ormai un sorso di liquido pessimo per ricadere nello stato di alterazione...

la posa

Il Pensatore di Rodin, immortalato senza scampo nella postura di chi riflette, allude a chi è impossibilitato dalla materia stessa a uscire da quella condizione di attesa, e rivela quindi più l’ottusità che l’acume. Anche perché la capacità di pensare è spesso accompagnata dalla rapidità di associazione e dalla velocità di individuare strutture logiche. Chi fatica a srotolare processi logici e a cogliere rapidamente analogie, assumerà facilmente la posa sconfitta del pensatore, mentre chi davvero ‘pensa’ non ha bisogno di posture definite, poiché pensa mentre cammina, pensa mentre ride e anche quando è in bagno. Così, analogamente, chi prende la posa dello scrittore (ornandosi di atteggiamenti e vezzi attribuibili a questa categoria), rischia di segnalare la sua afasia espressiva.

ironia

Credo sia quasi impossibile imbracciare la dura disciplina della scrittura se si è privi di ironia, compresa la sua forma più raffinata che è l’autoironia. La mancanza di ironia, del resto, rappresenta forse il tratto specifico dei seguaci di ogni pensiero assoluto, e là dove alberga un dogma raramente cresce uno scrittore. Per raccontare il mondo, infatti, bisogna osservare le cose e le persone con occhio neutro, libero da opinioni o da giudizi. Non so se le personalità poco ironiche finiscano per abbracciare le discipline dogmatiche, oppure se queste discipline inducano a una sorta di ‘bagno totale’ che impedisce lo sguardo imparziale, ma so che senza ironia non c’è scrittura (anche se poi, magari, nel testo non vi è traccia di ironia: è sufficiente che vi sia stata nel modo di guardare).

giovedì 17 gennaio 2008

dopo

S. mi dice che da qualche tempo non riesce più a scrivere, dice di non sentire l’ispirazione. E così sono tornato sull’antico tema. L’ispirazione non esiste, le ho detto. Sono le parole a produrre le nuove parole, non l’ispirazione. Comincia da un embrione di storia, da un fatterello, immagina una possibile evoluzione, ipotizza uno sviluppo (o più), tratteggia un intreccio... Insomma, comincia a scrivere, metti carne al fuoco, e vedrai che da quella materia grezza, sbozzandola a modo, potrai cavare un lavoro compiuto. E ricorda che la fantomatica ispirazione – ammesso che esista - se proprio deve raggiungerti ti apparirà soltanto a fine lavoro, non all’inizio: sorgerà sotto forma di lucido distacco dal testo e al tempo stesso dalla visione completa e piena dell’opera.