domenica 25 novembre 2007

dissoluzione

L’atto di scrivere (ovvero l’abitudine di scavare il buio alla ricerca del verbo o del termine adatto, faticando su ogni struttura sintattica) dovrebbe aiutare a dissolvere il proprio io, rendendo gli scrittori molto più umili e più semplici degli altri esseri umani, i quali, non avendo mai provato la disciplina dell’arte, hanno sviluppato una ipertrofia dell’io che li costringe a presentare una immagine di sé tronfia e impettita.
E invece – inspiegabilmente – vi sono molti scrittori che vivono nella piena convinzione di essere i più grandi autori viventi. Azzardo una possibile spiegazione: forse questi autori non hanno mai davvero ‘scavato il buio’, non hanno mai davvero disperso il loro io nel quotidiano atto di scrittura, non sono mai andati al di là dell'esercizio svolto con modalità note.
E dunque i loro testi non potranno essere che mediocri.

giri di campo

Ogni autore pensa con affetto ai testi che ha scritto in passato (lui li chiama libri). Ma dovrebbe abituarsi a considerare la maggior parte dei suoi scritti passati come semplice allenamento, come palestra preparatoria agli scritti successivi. Così, quando pubblicherà, potrà cominciare a scrivere i nuovi testi a partire da quel primo pubblicato e soprattutto a partire da quello stile, da quella formula, che senza dubbio rappresenta il punto più alto della sua capacità tecnica.
I testi precedenti, ovviamente, non dovrà buttarli, poiché magari sono buoni per altre epoche o per altre occasioni, ma dovrà ricordare che quelli sono stati i giri di campo grazie a cui ha sviluppato i muscoli che gli hanno permesso di realizzare l’impresa.

pensare al lettore

Ogni autore dovrebbe pensare al lettore, mentre scrive.
Ma a quale lettore deve pensare?
Il lettore generico, si sa, non esiste, poiché la lettura, come la scrittura, è esperienza ad alto contenuto individuale. Potrebbe scrivere pensando a un singolo lettore, attingendo dalla cerchia delle sue conoscenze, ma in questo modo, adattando il suo testo a quella persona, escluderebbe tutte le altre tipologie umane. Meglio allora se tenta di rivolgersi a una fascia di lettori, che so, i giovani, il ceto medio, i raffinati esteti, ma con il rischio di perdere di vista la fisiologica caratteristica del testo, ovvero quella di nascere da un singolo individuo per rivolgersi a un singolo individuo (che può anche diventare massa, ma massa di individualità). E allora?
C’è una terza via possibile: l’autore dovrebbe scrivere per il lettore che lui stesso è stato. Ma si badi, non il lettore maturo e smaliziato che è diventato a forza di libri, ma il lettore avido e appassionato che è stato quando ancora non aveva creato gerarchie del bello.

tre requisiti

L’autore scrive un libro, ma in realtà produce un manoscritto.
L’editore pubblica quel libro, ma in realtà scommette al buio su un parallelepipedo di carta.
Solo il lettore potrà dire se il manoscritto e il parallelepipedo sono diventati un libro.
Infatti un libro è tale se possiede almeno tre requisti: il primo, che l’autore governi (o inventi, in rari casi) gli strumenti lessicali, sintattici, narrativi, strutturali della composizione; che l’autore abbia qualcosa da dire, intendendo con questa formula non soltanto aspetti di contentuto ma anche (forse soprattutto?) formali, espressivi, di tono e simili, grazie ai quali l’editore si senta pronto a scommettere; infine, è necessario che il lettore sia catturato, anche inconsapevolmente, dalle soluzioni proposte dall’autore.
In assenza del terzo requisito è difficile dire che l’autore abbia scritto un libro.
E’ bene perciò che l’autore tenga sempre sul suo tavolo una foto del lettore, piuttosto che il proprio ritratto.

domenica 11 novembre 2007

lievito

L., con il suo racconto, ritaglia e descrive una porzione di mondo, quello delle chat line, e ne dà senza dubbio la mappa completa, ma non aggiunge al tutto quell’ingrediente in più che trasforma un testo documentario in un lavoro letterario: e questo ingrediente può essere un punto di vista laterale, un taglio stilistico originale, un intreccio potente, o altro ancora che l’istinto o il genio dell’autore saprà scovare, ma che è indispensabile per far lievitare (se vogliamo restare nella metafora culinaria) lo scritto.