mercoledì 8 aprile 2015

Scrivere 28

Il nome di un autore edito suona pressoché anonimo rispetto all’autore di un testo inedito. Chi per passione, gusto o professione frequenta sia i libri inediti e sia quelli editi si rende conto facilmente di questo fenomeno singolare. Ciò è dovuto, forse, ad una interessante e formidabile differenza fra libro edito e libro inedito, ovvero la diversa paternità (o maternità, è uguale). Infatti, il padre del libro edito, qualunque cosa ne pensi l’autore, è l’editore, che cercherà perciò di dare alla sua creatura tratti ed eredità che la rendano riconoscibile nel mondo: un logo, un formato, un colore, una copertina, una grafica, uno stile editoriale e così via. Il nome dell’autore (se l’autore non è già noto di suo per altre ragioni), ai fini di questa riconoscibilità, è l’ultimo dei parametri utili.

Il testo inedito, invece, giunge al lettore senza copertina, muto, privo di prezzo, dannatamente pallido, spesso non rilegato, ma munito di un solo dato: il nome dell’autore. Sarà con quel nome che il lettore di inediti dovrà entrare in confidenza per dare una identità al testo che sta sfogliando.


sabato 4 aprile 2015

Scrivere 27

Ogni autore sogna per il suo testo un futuro di libro edito e talvolta tende a scrivere opere che ritiene adatte alla pubblicazione. Per fortuna non ci riuscirà mai, perché sebbene egli sia convinto di generare l'opera, sarà l'opera a dare forma all'autore. 
E quindi, per quanto un autore desideri comporre un testo capace di non sfigurare lassù, nel mondo emerso dei libri editi, ecco che la sottile malizia dell'opera entra in azione. Lui, l'autore, crede di scrivere guardando al mondo emerso, sopra il livello del mare, ma l'opera che gli nasce sotto i polpastrelli, più forte e determinata di lui, parlerà di diatomee e di chiglie anziché di palme o di prue; la luce che sfuggirà dalle righe sarà strabica e si vedrà il remo spezzato rispetto all'angolo di ingresso sul pelo dell'acqua, mentre il pesce spada darà qua e là tagli imprevedibili alla sintassi.


domenica 29 marzo 2015

Scrivere 26

Del resto, tutti dovrebbero scrivere.
Ognuno di noi dovrebbe svolgere l’esercizio di trasferire sulla carta il risultato delle proprie riflessioni, l’esito dei propri pensieri, lo sviluppo e la struttura delle proprie idee. Non tanto per esibirsi in un atto vanaglorioso, ma soltanto per portare chiarezza dentro di sé, per sapere se effettivamente si pensa ciò che si crede di pensare. E bisognerebbe cercare di scrivere nel modo più chiaro e preciso possibile.

Alle corte: da sempre ho fatto mia la frase di Nietszche secondo cui migliorare lo stile significa migliorare il pensiero.




martedì 24 marzo 2015

Scrivere 25

È vero che l’atto di scrivere ha affinità con l’impegno bellico, ma questa formula si riferisce esclusivamente al tipo di energia fisica e mentale che occorre mettere in gioco prima e durante la composizione.
Sul piano più specifico della stesura di un testo, parola dopo parola, frase dopo frase, occorre dire che l’atto di scrivere è simile invece a un processo di tipo alchemico, nel quale si parte da ciò che si ha in mente e si procede per successioni logiche e sintattiche che porteranno a un esito estetico diverso da ciò che si prevedeva.
Chiunque scriva, infatti, dovrà abituarsi all’idea di vedere compiersi sotto i suoi occhi la costante trasformazione della sostanza. O meglio: dovrà pretendere che il suo sforzo sintattico ribolla di attività metamorfiche, dovrà rendere possibile la migrazione di elementi di testo da un punto a un altro della frase, dovrà percepire le modifiche di calore espressivo grazie alla sostituzione di vocaboli, dovrà vedere apparire grumi concettuali da sciogliere con la diluizione descrittiva, dovrà accogliere inaspettati esiti strutturali dovuti proprio alle continue reazioni avvenute fra i periodi.

Ma soprattutto, chi scrive si ritroverà modificato esso stesso da quel processo di trasformazione della sostanza lessicale che ha dovuto mettere in atto ed accettare. Così, abituando lo sguardo e la mente alla innumerevoli e incessanti trasmutazioni che la scrittura impone, l’autore giungerà, per affinità alchemica, a percepire se stesso in forma meno definita e stolida, ovvero più fluida e disponibile a ulteriori metamorfosi.


domenica 22 marzo 2015

Scrivere 24

Sì, l'atto di scrivere ha molte affinità con l'impegno bellico.
Durante la fase preliminare, infatti, quando si delinea la strategia, è necessario affidare al dubbio il ruolo di più fidato consigliere. Ma poi, quando l'attacco si è reso inevitabile, il dubbio deve essere lasciato al sicuro nelle retrovie affinché l'azione sintattico-narrativa possa essere esercitata con tutta l'efficacia e la potenza che è in grado di esprimere.
Alle corte: una volta impugnata la penna dovrai lottare su ogni frase con volontà leonina.


venerdì 20 marzo 2015

Scrivere 23

Sotto i pini marittimi, con il mare sullo sfondo, in un rovente pomeriggio mediterraneo, si compie la tragedia. 
Le cicale - sfondo sonoro e imperturbato - non hanno mai interrotto il loro concerto. 
Il canto delle cicale rammenta al romanziere che ogni storia è immersa in una realtà di solito piuttosto indifferente, ed è grazie a questo fondale immoto che l'evento narrato trae risalto e spessore.
Alle corte: chi scrive non deve mai dimenticare di dare voce anche alle cicale, nel suo testo.


mercoledì 18 marzo 2015

Scrivere 22

Ma per quale ragione, poi, si dovrebbe scrivere?
La domanda non è oziosa, ma punta al centro del problema. Credo che le risposte davvero concrete siano poche. La più importante e completa dovrebbe essere questa: “Non esiste una ragione per scrivere, ma tanti motivi più o meno buoni e quasi tutti poco importanti e in gran parte connessi con il banale bisogno di appagamento del proprio io”.
Fra i motivi minori, tuttavia, mi sembra di trovare un più nobile argomento (rispetto ai vagiti dell’autocompiacimento) nel fatto che la scrittura migliora la percezione del mondo: dovendo descrivere una persona, una cosa o una scena, sono costretto a osservare a fondo sia il quadro generale e sia i dettagli, e in questa operazione di graduale messa a fuoco i miei sensi si impadroniscono del mondo in maniera più piena e profonda di quanto non accada in altri momenti.

Alle corte: scrivere se non altro fa bene alla vista.   


lunedì 16 marzo 2015

Scrivere 21

Vi sono giovani e bravi autori che cadono ancora nella trappola della ‘lingua letteraria’. Hanno alle spalle buone letture, sono dotati di proprietà lessicale e preparazione sintattica, ma ripetono l’errore di comporre frasi che hanno ‘l’aria letteraria’ (o letter’aria) come a esempio: “…la rugiada brillava riflettendo sfumature iridescenti”.
Frasi come questa sono ovviamente del tutto normali e assolvono alla funzione descrittiva loro affidata, ma il loro limite è quello di suonare come organismi lessicali presi in blocco dalla prosa ‘altra’, forse alta o classica, ma senza dubbio datata. 
Inoltre, la scelta del dettaglio visivo (il riverbero della rugiada, in questo caso, così come in altri autori il pulviscolo reso percettibile da una lama di luce in una stanza) appartiene a luoghi narrativi ampiamente sfruttati, sicché la frase, anziché farmi ‘vedere’ la cosa descritta, mi rimanda soltanto ad altri libri.

Alle corte: se proprio vogliamo scrivere di rugiada o di pulviscolo (non è obbligatorio) dobbiamo faticare un po’ e trovare un modo proprio, personale e soprattutto fisico di rendere l’immagine, magari con una metafora specifica. 


domenica 15 marzo 2015

Scrivere 20

M. ha scritto un romanzo dallo stile nitido. La sua prosa è muscolare, controllata, ma poi cade affidando ai personaggi (alta borghesia) caratteri rigidi, fissi, oltremodo negativi, spinto forse dall’astio sociale o dal livore di classe. Così vanifica il suo sforzo e rende scadente un testo di buona fattura sintattica.
Lo scrittore deve rendersi conto di essere una lente, una lente preziosa che riesce a scorgere in un evento a prima vista semplice tutta la complessità di cui è composto. Lo scrittore sa (deve sapere) che ogni evento è più complesso di quanto sembri, che il suo compito è proprio quello di fuggire le semplificazioni e le generalizzazioni, per scandagliare la realtà nelle sue più riposte pieghe.
Alle corte: chi vuole esprimere giudizi perentori sulla società o sulle persone scriva un saggio, un trattato, un pamphlet e lasci il romanzo a chi è armato di soli acuti sensi e ramificati dubbi.




venerdì 13 marzo 2015

Scrivere 19

Il vero nemico da combattere, durante la scrittura, è il nostro stesso io. 
Infatti, se l’io è pletorico o ipertrofico sarà difficile scrivere di qualcosa che sia diverso da noi, mentre invece l’atto di scrivere esige che si lavori sempre intorno a qualcosa di diverso da noi, anche nel caso che si scriva di se stessi, affinché siano mantenute la giusta distanza dalle cose e la freddezza necessaria all’intento. Inoltre, se l’io signoreggia sarà impossibile rendere con chiarezza il punto di vista altrui, sarà arduo dare al testo un tono ‘panoramico’ o sinfonico.

Insomma, l’io è un ostacolo alla scrittura (oltre a essere l’unica fonte da cui attingere, per paradosso). Se poi il desiderio di scrivere anima una personalità dall’io ingombrante per avidità di vita e di sentimento, per quel continuo oscillare tra tormento ed estasi, per quel fuoco gelido che rende le decisioni dilaniate dal sospetto che la scelta opposta sarebbe stata migliore, ebbene, per questa persona l’ostacolo dell’io sarà pressoché insormontabile. E perciò dovrà liberarsi al più presto di quell’invadente fardello. Ma come? Scrivendone, semplicemente, per poi distruggere.


mercoledì 11 marzo 2015

Scrivere 18

Pietro mi dice che l’ortografia è solo un valore convenzionale e che ‘basta capirsi’.
Scrivere in forma corretta, vorrei replicare, non è solo un atto di convenzione, ma di sostanza. Se io anziché dire ‘Pietro’ dicessi ‘Pitro’, nel nominarlo fra amici, lui mi farebbe senza dubbio notare che il suo nome è Pietro. E se due minuti dopo lo chiamassi nuovamente ‘Pitro’ al posto di ‘Pietro’, lui - ne sono certo - mi segnalerebbe di nuovo l'errore oppure deciderà che sono uno screanzato e che non ho per lui la minima attenzione. A quel punto potrei dirgli che basta capirsi, tanto nessun altro, in quel gruppo, si chiama Pitro o Pietro, quindi non c’è da sbagliare. Però lui non sarebbe d’accordo. Vorrebbe essere nominato nella forma corretta. 
Ma perché? 
Per la ragione che lui, come tutti, sa o intuisce o percepisce che il suo nome è davvero qualcosa di più che non la semplice formula convenzionale con cui lo si identifica. Pietro sa (intuisce, percepisce) che lui è il suo nome, sa che se il suo nome viene pronunciato o scritto in forma scorretta è come se venisse intaccata la sua identità, non solo la convenzione.
Ma ciò che accade per il nostro nome - vorrei dire a Pietro - vale anche per le parole che designano cose, azioni, qualità. Se nominiamo le cose e le azioni in forma scorretta, quelle cose e quelle azioni perdono parte della loro identità. Inoltre, usare un vocabolo in forma scorretta rivela qualcosa di noi: rivela che poniamo poca attenzione al mondo, indica la nostra poca adesione al vero, tradisce la nostra indifferenza per la sostanza delle cose (poiché, giova ripeterlo, il nome è la cosa).

Alle corte: usare le parole nella forma corretta è importante se si vuole davvero prendere contatto con il mondo, ed è addirittura indispensabile se si pretende di raccontarlo con le parole scritte.


lunedì 9 marzo 2015

Scrivere 17

Ci sono segreti che, pur rivelati in ogni loro dettaglio, mantengono inalterata tutta la loro occulta potenza, poiché il vero segreto non sta nella rivelazione del principio enunciato o nella modalità tecnica esposta, ma nella difficoltà di accedere a quella padronanza di cui il segreto è solo l’astrazione. 
Uno dei segreti della scrittura, a esempio, è nella precisione lessicale. Grazie a questa capacità, chi legge riesce davvero a vedere o a capire ciò che l’autore sta descrivendo. Ecco, un segreto di tale genere può essere donato a tutti e probabilmente non c’è manuale che non ne parli. 
E però il segreto mantiene intatto il suo nucleo di inaccessibilità, poiché per arrivare alla precisione lessicale occorre passare per innumerevoli stadi, compiere infiniti sforzi, scrivere e riscrivere mille volte la stessa frase, modificare periodi e sintassi, sostituire verbi o eliminare aggettivi, lungo una strada che regala la vera comprensione del segreto soltanto al fondo dell'esperienza fisica, dopo aver consumato tenacia e perseveranza.




domenica 8 marzo 2015

Scrivere 16

Chi ha scelto di scrivere (pare ovvio dirlo) ha privilegiato l’ombra alla luce, il silenzio al clamore, la solitudine alla compagnia. Ed è perciò bizzarro che poi manifesti un insano desiderio di apparire.
E dunque, se il tuo bisogno di apparire è davvero così impellente – vorrei dire a N. – allora dovresti cercare di soddisfarlo in un altro modo, perché scrivere nasce quasi sempre da una urgenza tutta opposta.

Resta inteso che chiunque scrive trarrà infine piacere dal pubblicare, ma bisogna saper distinguere, appunto, fra il normale piacere che discende dal riconoscimento del proprio lavoro (non diverso dal piacere che prova chi cucina nel vedere apprezzati i piatti preparati) e la patologica necessità di essere notati, che va discussa con uno specialista.  


venerdì 6 marzo 2015

Scrivere 15

Un errore comune fra gli autori ancora acerbi è quello di attribuire ai personaggi caratteristiche generali. 
Il giovane autore G., ad esempio, descrive aspetti del mondo aziendale che possono essere applicati a tutte le aziende, a tutti gli impiegati, cosicché, pur nel piacere della lettura e nell’originalità del modello narrativo, si sente un senso forte di già visto, di già letto, di già sentito: infatti, tutti i ‘capi’ hanno le caratteristiche del 'capo' da lui descritto e tutte le spie aziendali, nel nostro immaginario, hanno modi e aspetto di quella tratteggiata nel testo.
La soluzione applicata dai grandi autori fin dal nascere della struttura aziendale, per stare nel solco di G., è quella di lasciare sullo sfondo le caratteristiche note e condivise, privilegiando invece gli aspetti davvero esclusivi di quella realtà, al costo di ingigantire fenomeni. Melville rende singolare il suo impiegato Bartleby amplificando il suo rifiuto del lavoro, e in questo modo nessun impiegato sarà mai come lui. L’assurdità della burocrazia viene trattata da Kafka come una forma quasi comica di incubo totale. Villaggio, esagerando oltre ogni limite il servilismo dell’impiegato, rende immortale Fantozzi.

Alle corte: ogni personaggio, anche il più ordinario e senza qualità, ha voglia, come tutti noi, di sentirsi unico. L’autore che non sa donargli questo connotato si condanna alla piattezza narrativa.


mercoledì 4 marzo 2015

Scrivere 14

Il fatto è che siamo portati a intendere la parola ‘vita’ come qualcosa di riconducibile a esperienze note, o almeno immaginabili, in un atto di superbo zoocentrismo (o, peggio, antropocentrismo). Non pensiamo mai di estendere la definizione di vita al respiro eterno e incessante degli atomi e delle molecole che si ricombinano da sempre in sostanze ora animate ora no. Non attribuiamo la patente di ‘vivente’ alla pietra che si sfalda e sulla quale i sali si dissolvono in ioni per riunirsi altrove in concrezioni nuove. Restiamo saldamente abbarbicati all’idea di vita connessa con gli esseri animati e individui.
Ma basterebbe estendere il senso del termine ‘vita’ anche alla parte inorganica del mondo per far diventare un saggio di geologia interessante come un romanzo. E se qualche autore cominciasse a scrivere la storia di una scaglia di ossidiana (o di un numero, o di un cactus) con la stessa intensità e angolazione di sguardo prestata agli umani, ecco che assisteremmo al sorgere di una nuova letteratura.



lunedì 2 marzo 2015

Scrivere 13

Bisogna parlare e scrivere tenendo conto dell'immaginario di chi ascolta o legge. Se io dico 'portamento', chi mi ascolta pensa istintivamente al passo della modella. Ma se io volevo intendere con 'portamento' ad esempio l'autorevolezza presente anche nella struttura fisica di una persona, allora dovevo sforzarmi per cercare il termine capace di evocare nell'altro esattamente ciò che io avevo in mente.
Dunque, per farsi capire occorre attingere, prima di usare una parola, a una sorta di 'patrimonio collettivo di immagini' e far coincidere la parola scelta con l'immagine collettiva che quella parola evoca.
Ma soprattutto occorre battersi - ripeto, battersi - fra vocabolo e vocabolo, fra termine e termine, scegliendo e scartando a oltranza, fino a ottenere il risultato voluto. Alle corte: parlare (o scrivere) con proprietà e con capacità di farsi intendere ha a che fare con le arti marziali.


domenica 1 marzo 2015

Scrivere 12

C’è chi (come me) vede in ogni elenco l’abbozzo o meglio lo scheletro di una narrazione, il riflesso di una storia, e ne assorbe il profumo. Ricavare da uno scarno elenco di nomi il senso di una trama può sembrare un modo elementare e forse pigro per dare libero sfogo all'immaginazione, ma l’esercizio è senza dubbio interessante e produce esperienze psichiche alte, al punto che io lo ripeto pressoché ogni giorno, con grande piacere. 
Alcuni esempi: leggere i necrologi e vedere l’arredamento delle case; scorrere i nomi dei vincitori di tappa del Tour de France, con l’atlante sott’occhio, e sentire il caldo del Mont Ventoux o le ventate di Normandia; leggere i nomi degli elementi chimici e scorgere i cristalli o la lava vulcanica.  




sabato 28 febbraio 2015

Scrivere 11

Il pensiero - vale a dire ciò che penso, le mie idee, le sensazioni, i progetti - è come un treno: può contenere cose e persone, ma per muoversi ha bisogno dei binari. E i binari sono le strutture sintattiche su cui faccio procedere le frasi compiute, le parole, i periodi, le congiunzioni, gli avverbi con cui formulo e do forma al pensiero, anche il più banale. Soltanto in questo modo il pensiero, perlomeno il mio, può arrivare a destinazione, ovvero definirsi ed essere compiuto. Ma soprattutto, soltanto affidando il pensiero a una forma strutturata in frasi definite riesco a capire esattamente ciò che sto pensando. In assenza di binari, le cose e le persone contenute nel pensiero si affollano sulle pensiline in disordinata e irritante attesa, in una confusione di volti e di oggetti da cui non è facile separare il proprio dall'altrui. Alle corte: per sapere che cosa si pensa occorre pensare in forma scritta.


venerdì 27 febbraio 2015

Scrivere 10

Certo - gli ho detto - anche per la scrittura si tratta proprio di questo, di entrare e di uscire dalle cose che ci circondano con un atteggiamento lieve, giocoso. Non sa quanti autori, giovani e non, magari anche dotati, risultano alla fine impotenti o bloccati proprio per la responsabilità (del tutto autoriferita) che sentono collegata all’atto di scrivere. Potremmo quasi dire che siamo in una zona affine all’ansia da prestazione, per stare nel solco psicologico a lei caro. E invece è proprio da una posizione più leggera, disincantata e anche un poco autoironica che può nascere un lavoro buono, composto con muscoli rilassati e senza mire di eternità, pur nel rispetto dell’impegno e della serietà che ogni gioco giocato davvero richiede. Alle corte: è come con il solitario, che esige la massima concentrazione nella certezza di svolgere un atto superfluo.





mercoledì 25 febbraio 2015

Scrivere 9

Come una casa è composta in gran maggioranza dal vuoto; come il nostro corpo è al settanta per cento acqua, così l'attività dello scrittore è costituita in gran parte dall'ozio. Provate a togliere il vuoto alla casa. Provate a togliere l'acqua al corpo.
Scrivere senza avere a lungo bighellonato intorno all'idea, scrivere senza aver prima girellato con la testa vuota di qua e di là, scrivere senza avere perso tempo vicino ai mille possibili sviluppi, scrivere senza aver vegliato a lungo su ogni frase, scrivere senza aver lasciato sedimentare i brani produce edifici invivibili, corpi secchi.

martedì 24 febbraio 2015

Scrivere 8

C’è da dire una cosa: quando si soffre si ha la sensazione di diventare più ‘sensibili’, e si tende perciò a scrivere di quello stato, da quell’apparente privilegiato punto di osservazione, così ricco di sfumature. È un errore. Quando si soffre non si diventa affatto più sensibili, ma molto molto meno capaci di cogliere i profili della realtà. Faccio un esempio: se ci ustioniamo, la parte colpita sembra diventare più sensibile, ma in realtà è soltanto reattiva, fa male appena la sfiori, ma è incapace di riconoscere il caldo dal freddo, il liscio dal ruvido eccetera, perché il solo contatto produce dolore. Così accade con le cose della testa (o del cuore, per quel che vuol dire). Quando fa male da quelle parti crediamo di essere più sensibili, ma siamo solo più reattivi. Scrivere di quella particolare reattività è un errore, perché ciò che ne esce è soltanto la prova di una cieca reazione, già mille volte descritta e di solito inutile e noiosa per chi legge.
Insomma, in attesa che passi la bufera bisogna continuare a scrivere come se la bufera non ci fosse. Alle corte: niente intimismi e simili, mai.




Scrivere 7

"Certi giorni non so proprio cosa scrivere," mi dice un giovane autore, "eppure so che voglio scrivere..."
Quando ciò accade, ho risposto, si può provare a partire dalle affermazioni più piccole, dalle particelle elementari della narrazione, equivalenti nel campo chimico alle molecole, traendole magari dal più ordinario degli scenari. A esempio, la formula di partenza potrebbe essere: "Devo lavare il lampadario." Da questa banale premessa la scrittura può prendere le mosse per semplici processi conoscitivi: "Perché devi lavare il lampadario?" La risposta può essere: "Perché è sporco." E allora si procede con le domande: "Perché se il lampadario è sporco lo devi lavare?" Risposta: "Perché se no non vedo più..." Cui segue la domanda ulteriore: "E che cosa c'è di così importante o di così nuovo da vedere?" Risposta: "Non saprei... Forse niente...".

Come si vede, queste semplici battute hanno già innescato un minuscolo processo narrativo, un testo dialogante. Basta svilupparlo, continuare a fare domande, scavare in profondità o lateralmente. Alle corte: anche la frase più insulsa è l'inizio di una storia.


domenica 22 febbraio 2015

Scrivere 6

C’è qualcuno convinto che vi sia un legame fra l’atto di leggere e l’atto di scrivere. Ma io mi chiedo: che c'entra leggere con scrivere? Sarebbe come dire che andare in bicicletta è un po’ come costruirla. Si tratta sempre di una bicicletta, di quella stessa medesima bicicletta, ma chi pedala pro­va sensazioni diverse da chi la costruisce. E sono esperienze diversis­sime. Non solo, ma chi va in bicicletta può ignorare tutto della costruzione del mezzo, e divertirsi un mondo. E chi la fabbrica può anche non salirci mai, se non il per collaudo, trovando assai meno piacere nel cavalcarla che non nell’assemblare i pezzi che ne permetteranno l’agile e frusciante moto.





Scrivere 5

Scrivere un racconto è più difficile che scrivere un romanzo.
Tutti conoscono questo noto ritornello. Tempo fa nacque addirittura un piccolo evento letterario intorno al più breve racconto del mondo: “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora là”, di Augusto Monterroso.
Ma in che cosa consiste questa difficoltà che caratterizza i testi brevi? Perché un racconto breve è ‘più difficile’ di un lavoro più lungo?

Forse, una delle ragioni è che nella brevità vengono sacrificate le facoltà panoramiche del raccontare. Ma il lettore, ogni lettore, è come un drogato, e pretende che l’atto della lettura gli dilati un bagliore nella testa, gli regali, appunto, un panorama da osservare (uno scenario, un’idea, un eccesso, va tutto bene). Ma come si fa, in poche righe, a mostrare tanto? Si deve ricorrere a qualche trucco, si deve ‘alludere’ a un panorama, si deve dire qualcosa che evochi qualche altra cosa. E riuscire a far vedere ciò che non è nemmeno detto, è davvero un artificio complesso e delicato.




sabato 21 febbraio 2015

Scrivere 4

L’esperienza dello scrittore è simile a quella di chi decora e imbianca un salone: lavora tra la polvere e le macchie con un cappello di carta in testa, una scala traballante e fogli di giornale sul pavimento. Il lettore è colui che entrerà nel salone a lavori ultimati e resterà ammirato dall’equilibrio cromatico, dalla pulizia, dalla bellezza.

giovedì 19 febbraio 2015

Scrivere 3

L’atto di scrivere esige dal suo autore una alta dose di presunzione e una altrettanto elevata parte di umiltà. Ma attenzione: umiltà e presunzione devono essere presenti, durante l’atto di scrittura, nella stessa identica quantità, dosate al millesimo di grammo e distribuite con la medesima energia al momento di scegliere tono e parole. Infatti, un eccesso di presunzione conduce a una esposizione ricamata o addirittura spocchiosa. Mentre se prevale l’umiltà il testo risulta onesto e pallido, privo di quella fiamma interna che anima ogni opera autentica e che chiamiamo stile.



mercoledì 18 febbraio 2015

Scrivere 2


G. mi domanda: “Credi che io sia portata per la scrittura?”.
Risposta:
E’ impossibile rispondere a questa domanda con un sì o con un no. La scrittura è una competenza che si può acquisire a condizione che si accettino due condizioni di partenza: 
--       quanto sei disposta a faticare, per la scrittura, in termini di lavoro quotidiano, ovvero progettare un lavoro, ridurlo in frazioni minime, stendere le prime parti, modificare l’assunto, lavorare su ogni frase e sul quadro generale, non arrendersi se per giorni non si sa più che fare, avere il coraggio di cancellare tutto e ricominciare, darsi obiettivi quotidiani rigorosi, restare per alcuni mesi come ‘sospesi’ pensando solo al testo, rileggere e rivedere…?
-       sei disposta a rinunciare ai tuoi ‘tic’ espressivi, alle tue abitudini sintattiche, a ciò     che già credi di sapere sulla costruzione del testo, e cominciare a scrivere con uno stile neutro, non personale (da cui poi potrà magari emergere la tua voce, non mediata da echi altrui)?


martedì 17 febbraio 2015

Scrivere 1

Tutti parlano. Chiacchierano, litigano, si confidano, discutono, qualcuno conciona, altri dialogano.
Può sembrare naturale che si possa scrivere con la stessa facilità. E invece no. Appena si comincia a scrivere si è già meno rilassati, alcuni avvertono addirittura come un blocco, una difficoltà e spesso non cominciano nemmeno. Qualcuno potrebbe suggerire di registrare i nostri dialoghi più appassionati, più vivaci e divertenti, per avere bello e pronto un testo di prima qualità. Si faccia la prova, e si vedrà che anche quel testo, così scintillante nella realtà, suona molle e insipido, sulla carta.
Come mai?
Il fatto è che parlare e scrivere non sono la stessa cosa. Nella lingua parlata applichiamo meccanismi acquisiti nell’infanzia, li replichiamo in un modo che ci pare ormai istintivo, sicché ognuno di noi parla con un discreto grado di naturalezza.
La scrittura, invece, è un artificio totale, paragonabile all’azione del giocoliere, del funambolo, del prestigiatore. Ecco perché quel brillante dialogo orale diventa sciocco appena viene calato sulla pagina: per potere essere trascritto fedelmente, quel dialogo, deve essere tradotto nella lingua della scrittura, deve essere impastato con gli artifici e le tecniche, e soprattutto le malizie e i trucchi di quel mezzo. Bisogna far vedere e nascondere, dire e lasciare immaginare, procedere spediti e poi improvvisamente rallentare, quasi fermarsi, per poi scattare nuovamente.

Scrivere significa impadronirsi di queste malizie.