lunedì 26 maggio 2008

serietà e papille


"Ha mai pensato di scrivere un libro serio?" mi chiede Luigina Ambrogio, in un'intervista per il suo giornale.

Io sono convinto di avere scritto esclusivamente libri seri. La presenza dell’elemento comico, del paradosso, del linguaggio colorito, non minano la mia intenzione letteraria, ovvero non sono espedienti per un facile consenso. Credo per esempio che Gargantua e Pantagruel sia un’opera serissima sebbene faccia sganasciare dalle risate. Dico che scrivo solo libri seri, anche se intrisi di comicità, perché mi impegno sempre su ogni riga, parola per parola, per far sì che la sintassi, la storia, lo stile incatenino il lettore alla pagina. Ma non basta una bella storia o qualche tratto scollacciato per sedurre il lettore, per tirarlo a sé. Il lettore, ogni lettore, anche il meno smaliziato, si rende conto istintivamente se viene sedotto o no da un testo. E’ come per il cibo, tutti riconoscono il cibo buono. E gli strumenti di questa operazione, di questa cattura, sono la sintassi, lo stile, il tono. Le frasi devono scivolare una nell’altra con fluidità, i periodi devono essere ‘massaggiati’, spostando avverbi e trovando sinonimi, fino a farli diventare morbidi e lisci. Si tratta di tecnica, solo con la tecnica si può sperare di far partecipare e vibrare chi legge.

In ogni caso, annuncio che il mio prossimo romanzo, Veleni al Lingotto (Frilli editori), sarà assai meno licenzioso di Piombo a Stupinigi.

sabato 17 maggio 2008

osmosi


Poiché scrivo, da molti anni faccio il possibile per non 'avere idee', intese come opinioni fisse e immutabili, e per non 'farmi idee' (intese come giudizi su persone, cose, concetti), cercando invece di dispormi in forma osmotica rispetto al mondo, vale a dire assorbendo il più possibile le qualità essenziali di ogni aspetto, i dettagli di ogni cosa. Così, nel corso del tempo, ho cercato più di 'assorbire' che di giudicare o valutare. E perciò il mio presente è a tutti gli effetti più simile una vasta fluttuazione vibrante (luce e ombra, curve e rette, tutto insieme) che non a un matematico risultato di esperienze, e relative analisi, condensate nell'oggi.
Naturalmente, quando parlo di 'assorbire' cerco di stare molto attento nel selezionare ciò che è essenziale da ciò che è contorno, corollario o addirittura scoria, e perciò adotto filtri specifici grazie ai quali mi sembra di poter valutare, nel gran numero di stimoli offerti, ciò che risuona come irrinunciabile (è l'istinto a cogliere questi elementi), scartando così ciò che si caratterizza come non essenziale se non addirittura negativo e determinato per lo più dalle umane debolezze. Ma attenzione: ciò che scarto non sparisce del tutto, finisce nei libri, proprio come l’essenziale.

ancora il ferro da stiro

L’abitudine di scrivere con l’obiettivo di ‘distendere’ per bene ogni frammento del proprio pensiero, su questo o quel tema, risulta straordinariamente utile, in seguito, quando si lavora alla stesura di un romanzo, ovvero quando sarà necessario possedere la massima competenza nel ‘distendere’ una scena nelle varie sequenze di cui è composta, per ‘far vedere’ davvero ciò che accade.

il ferro da stiro


La maggior parte dei miei scritti non ha alcuna relazione con l’eventuale pubblicazione. In massima parte, scrivo per portare chiarezza nei miei stessi pensieri, per vedere in profondità le mie strutture mentali, vale a dire per scoprire fino in fondo che cosa penso davvero e se lo so dire, dato che se non so descrivere con chiarezza ciò che penso, forse è perché le idee stesse non sono chiare (“migliorare lo stile significa migliorare il pensiero”, F. Nietzsche).
Solo ‘stirando’ pazientemente ogni propria ideuzza, stendendola ben bene nei passaggi logici e sintattici, si riesce a scorgere la vera natura dei propri pensieri.

menzogne


Se uno scrive per diventare famoso, in realtà non vuole scrivere, vuole diventare famoso. Il primo vero lavoro da fare, dunque, è quello di sapere davvero che cosa si vuole (si tratta poi soltanto di non mentire a se stessi, di sapere che cosa c’è nella nostra botte).

la palestra letteraria


Fioccano i corsi di scrittura creativa, dove si insegnano le tecniche di composizione e le strutture narrative. Ma è come insegnare a un canottiere le regole per vincere una regata senza quasi mai farlo remare: saprà tutto, ma crollerà alle prime boe, per mancanza di allenamento.
Più che la teoria, nella scrittura, come nel canottaggio, conta l’allenamento quotidiano. Solo scrivendo, del resto, si impara davvero, riuscendo ad agire direttamente sui propri errori e scovando in sé il passo più congeniale. Dunque, la palestra letteraria è davvero più efficace di un corso di scrittura creativa. Si va in palestra e si scrive per due ore, sotto il controllo del coach, che fornisce gli esercizi da fare (tipo di testo, lunghezza, vincoli stilistici e simili), verifica i risultati e stabilisce le esercitazioni da svolgere a casa, nel corso della settimana.
Sono stati davvero inaspettati i risultati del primo corso svolto alla palestra letteraria: persone che non avevano mai scritto, non più giovani, titubanti di fronte alla pagina bianca, sono diventate in pochi mesi pronte a gettarsi in stesure (guidate, a temi prestabiliti, va da sé) vaste e fantasiose.
Si tratta però di dare i compiti giusti, adatti ad ogni singola persona. E si tratta di lavorare dapprima sulla fiducia in se stessi e sulla necessità di accedere alla scrittura in modo leggero, lieve e magari anche scanzonato. Tutto lavoro per il coach.

martedì 6 maggio 2008

atarassici e vigili


Grivet mi scrive, in merito al post precedente: "In ogni caso, seppur nel deserto, l'autore deve tenere le orecchie ben dritte per cogliere le opportunità positive che l'ambiente - sebbene ostile - gli offre."
Ha ragione, ma quel tipo di sensibilità, l'orecchio teso, l'attenzione costante e inesausta sono requisiti di base per chi scrive, che non vengono mai meno, anche quando si sceglie l'atarassia.

il deserto


La Fiera del Libro di Torino è una occasione che può indurre sofferenza, per chi scrive, e perciò bisogna munirsi di antidoti. Ma prima occorre dire di questa sofferenza. L’autore inedito soffre perché fra i mille libri esposti non uno reca il suo nome in copertina. L’autore edito, nella stragrande maggioranza dei casi, ha pubblicato per un piccolo editore e quindi si rende conto subito che la sua creatura è meno che una goccia, nel gran mare dei libri stampati, soffrendo per la smagliante invisibilità nonostante la presenza del volume sul banchetto. L’autore affermato è molto spesso intrappolato nel sottobosco tecnico della giungla editoriale e fatica perciò a cogliere gli eventuali benefici della notorietà (fatti salvi, in pochi, pochissimi casi, i proventi che ne derivano: ma conviene non farci affidamento), soffrendo le ordinarie pene del vivere contemporaneo.

Pietro Grossi, in un recente incontro al Premio Calvino, ha affermato che uno dei pochi vantaggi dell’essere ‘autore affermato’ è quello di scoprire, sebbene in ritardo, la felicità che caratterizzava il suo status precedente, ovvero la felicità di ‘non esistere’.

Dunque, è bene che chi scrive, edito o inedito che sia, entri e caracolli fra gli stand della Fiera del Libro munito di una solida aura forgiata nel piacere sottile, vero e profondo (nulla a che vedere con la volpe e l’uva) di non essere lì: potrebbe accadere di non poter più godere, in futuro, delle gioie del deserto.