Pietro mi dice che
l’ortografia è solo un valore convenzionale e che ‘basta capirsi’.
Scrivere in forma corretta,
vorrei replicare, non è solo un atto di convenzione, ma di sostanza. Se io
anziché dire ‘Pietro’ dicessi ‘Pitro’, nel nominarlo fra amici, lui mi farebbe
senza dubbio notare che il suo nome è Pietro. E se due minuti dopo lo chiamassi
nuovamente ‘Pitro’ al posto di ‘Pietro’, lui - ne sono certo - mi segnalerebbe
di nuovo l'errore oppure deciderà che sono uno screanzato e che non ho per
lui la minima attenzione. A quel punto potrei dirgli
che basta capirsi, tanto nessun altro, in quel gruppo, si chiama Pitro o
Pietro, quindi non c’è da sbagliare. Però lui non sarebbe d’accordo. Vorrebbe
essere nominato nella forma corretta.
Ma perché?
Per la ragione che lui, come
tutti, sa o intuisce o percepisce che il suo nome è davvero qualcosa di più che
non la semplice formula convenzionale con cui lo si identifica. Pietro sa
(intuisce, percepisce) che lui è il suo nome, sa che se il suo nome
viene pronunciato o scritto in forma scorretta è come se venisse intaccata la
sua identità, non solo la convenzione.
Ma ciò che accade per il
nostro nome - vorrei dire a Pietro - vale anche per le parole che designano
cose, azioni, qualità. Se nominiamo le cose e le azioni in forma scorretta,
quelle cose e quelle azioni perdono parte della loro identità. Inoltre, usare
un vocabolo in forma scorretta rivela qualcosa di noi: rivela che poniamo poca
attenzione al mondo, indica la nostra poca adesione al vero, tradisce la nostra
indifferenza per la sostanza delle cose (poiché, giova ripeterlo, il nome è
la cosa).
Alle corte: usare le parole
nella forma corretta è importante se si vuole davvero prendere contatto con il
mondo, ed è addirittura indispensabile se si pretende di raccontarlo con le parole
scritte.